Vuoi mantenere il tuo posto di lavoro? Vuoi trovare un nuovo lavoro? Oggi devi munirti di una “cassetta degli attrezzi” che contenga, oltre al sapere tradizionale, anche le competenze digitali e relazionali. Martina Gianecchini che insegna Gestione delle Risorse Umane all’Università di Padova ha coniato il temine “lavori ibridi”, per indicare i lavori che possono contrastare il declino del mercato del lavoro. Insegnante, medico, operaio, chirurgo, parcheggiatore, meccanico: nessun lavoro si salva e tutti si devono “ibridare”.

Guarda l’intervista a Martina Gianecchini di Giovanni Carrada per Rai – Inclusione Digitale:

Paolo Gubitta, direttore dell’Osservatorio sulle Professioni Digitali, è stato intervista da Giovanni Carrada per “Inclusione digitale – Storie”, una produzione Rai Inclusione Digitale.

Nell’era digitale, l’introduzione delle nuove tecnologie anche nei mestieri tradizionali rende necessario colmare alcune lacune: acquisire competenze digitali, informatiche e relazionali è come avere una assicurazione sulla vita.

La puntata è andata in onda lunedì 20 ottobre alle 11.45 su Rai Scuola.

Guarda l’intervista a Paolo Gubitta

Quando pensiamo al mondo dell’agroalimentare, siamo soliti associarlo all’idea di artigianalità, di valore, di italianità. Questo è certamente vero, ma ci sono anche altri segreti che fanno del cibo Made in Italy un’eccellenza, e che sono oggi sempre più rilevanti nel panorama mondiale del settore dell’agrifood.

Una prima riflessione riguarda la possibilità di creare una relazione virtuosa tra tradizione e innovazione e tra manualità e digitalizzazione, in linea con quel processo di ibridazione dei lavori e dei processi di produzione, che non esclude alcun settore. In particolare, secondo un articolo del quotidiano La Repubblica dal titolo “Agrifood 4.0, le tecnologie ci sono ma il mercato non decolla”, “le tecnologie oggi consentono alle aziende agroalimentari di migliorare e innovare la qualità in diversi modi”, ad esempio, il 51% delle aziende ne ha fatto uso per valorizzare la qualità di origine (soprattutto per i prodotti ad alto valore aggiunto come vino, cacao e caffè); il 46% ha migliorato la sicurezza alimentare; il 25% ha investito in tecnologie con l’obiettivo di migliorare i metodi di produzione (in particolar modo gli aspetti legati all’impatto ambientale e alle tradizioni agroalimentari del territorio); infine, nel 12% dei casi, le aziende hanno adottato le tecnologie per migliorare la qualità del servizio offerto.

È per queste ragioni che le aziende devono quindi continuare ad investire in ricerca e sviluppo per (ri)innovare i prodotti, la loro lavorazione, il servizio offerto, e per creare nuovo valore per i clienti. Alcuni concetti chiave legati a questo cambiamento in atto nel settore agroalimentare sono riconducibili a tre principali temi, che sono riassunti di seguito.

Il primo è quello delle filiere, in cui oggi gli ingredienti fanno sempre più la differenza. Nel mondo del food la qualità del prodotto finale dipende per l’80% dalla qualità delle materie prime utilizzate per crearlo. Per quanto riguarda le implicazioni in termini gestionali, ciò carica di importanza strategica l’organizzazione e la certificazione di filiera: i rapporti tra fornitori e clienti saranno quindi sempre di più orientati verso un’ottica di lungo periodo, in cui la reciproca collaborazione porta ad un prodotto (locale) di qualità eccellente e a volte certificata.

Un orientamento di questo tipo, che basa le proprie fondamenta su una rete di partner di fiducia, può inoltre favorire lo scambio reciproco tra gli attori del settore e facilitare quindi l’innovazione e la crescita.

In secondo luogo, i consumatori sono sempre più informati e consapevoli: internet, i social media e i programmi televisivi dedicati al mondo del food qualificano la domanda del consumatore medio. Ciò rende il cliente più attento ed esigente rispetto alla qualità del prodotto e più capace di riconoscere il valore dei prodotti agricoli che ha di fronte, e questo porta con sé un necessario e profondo orientamento ai fabbisogni di qualità percepita, sostenibilità e autenticità richiesti dal mercato.

Per questa ragione, le aziende possono instaurare rapporti di fiducia e di collaborazione con grandi chef o esperti del settore che ricoprano la figura di partner, testimonial o influencer capaci di veicolare il loro messaggio e aiutare i clienti a capire il giusto valore da attribuire ai prodotti in termini di bontà e qualità.

Infine, le nuove tecnologie stanno rivoluzionando i processi di innovazione in cucina: come nel caso dei motori bifuel, anche in cucina la realizzazione dei cibi può seguire percorsi diversi. Le competenze qualificate e differenziate dei grandi chef portano alla richiesta di strumenti di lavoro altrettanto qualificati e differenziati, che deve essere soddisfatta dalle aziende a monte della filiera tecnica.

Ci sono numerosi esempi che dimostrano questa evoluzione. Uno per tutti, riguarda le cucine professionali, che sono il cuore produttivo. In questo ambito, sta prendendo piede la doppia tecnologia di cottura, ovvero di impianti che dispongono allo stesso tempo di piani cottura a gas e ad induzione, a conferma del fatto che la qualità e la differenziazione in cucina può anche essere centrata sulle tecniche e sui processi di cottura.

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Informazioni sull’autore:

Elisa Rati è borsista di ricerca in tema Lavori Ibridi presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “Marco Fanno” dell’Università di Padova ed è membro dell’Osservatorio delle Professioni Digitali.

Spesso la presenza pervasiva di macchine dotate di intelligenza artificiale nelle nostre aziende (e nelle nostre vite) è percepita come un concetto avveniristico, fantasticamente proiettato in un futuro non troppo vicino.
I robot nelle fabbriche e nelle case sono visti come un possibile scenario che si verificherà forse in America, forse in Asia, e chissà forse un giorno anche da noi. Ma la realtà è ben diversa da ciò che si potrebbe pensare. La così detta Industria 4.0 riguarda proprio questo: secondo un articolo del quotidiano La Repubblica dal titolo “Robot, entro 4 anni un boom da 171 miliardi di dollari”, “il mercato della robotica conoscerà a breve un boom senza precedenti. La data prevista è il 2020”.

I processi di automazione e digitalizzazione stanno già ridefinendo radicalmente il manifatturiero, apportando cambiamenti profondi non solo in ambito tecnico e produttivo, ma anche a livello culturale e relazionale. Secondo i dati dell’International Federation of Robotics, nel 2017 l’Italia è stata il settimo paese al mondo per produzione di robot industriali. Come evidenziato anche da Manolo Garabini, ricercatore di robotica e fondatore di qbrobotics, ciò dimostra che le cose iniziano davvero a muoversi velocemente e che anche l’Italia sta sperimentando un percorso di innovazione che determinerà la sua competitività nel mercato e il futuro dell’economia del paese.

La domanda che potrebbe quindi sorgere spontanea – e che è stata proposta per la prima volta nel 2013 da Frey e Osborne, ricercatori dell’Università di Oxford – è la seguente: cosa significa il recente sviluppo tecnologico per il futuro del mondo del lavoro e per il contenuto del lavoro stesso?

Pur essendoci diverse correnti di pensiero, emergono chiaramente dalla letteratura due elementi principali che caratterizzano questo cambiamento, e che sono analizzati dell’articolo di John Harris pubblicato dal The Guardian dal titolo “Meet your new cobot: is a machine coming for your job?”. In particolare, alcuni studi hanno messo in evidenza come, nonostante le macchine abbiano effettivamente sostituito alcuni lavori, molti altri siano stati creati di conseguenza poiché i robot funzionano bene solamente se progettati, prodotti, e affiancati da tecnici e ingegneri umani, capaci di guidarli e valorizzarli. Inoltre, per quanto riguarda i contenuti del lavoro in sé, spesso le macchine subentrano ai lavoratori in carne ed ossa per lo svolgimento di attività monotone, alienanti e poco motivanti. Come suggerisce il settimanale The Economist nel report del 2018 “The sunny and the dark side of AI”, potrebbe essere quindi un’opportunità per rendere la vita dei dipendenti più soddisfacente, gratificante e stimolante? Ecco allora che gli effetti dell’intelligenza artificiale non si limitano solo al mercato del lavoro, ma sono destinati a cambiare anche i luoghi e i contenuti del lavoro stesso.

In secondo luogo, è importante sottolineare la possibilità che una classe di lavoratori venga esclusa dal mercato, composta da persone poco qualificate o semi-qualificate con basso livello di formazione. Una classe definita da John Harris “inutile”, in quanto non apportatrice di valore economico aggiuntivo in quanto facilmente sostituibile dalle macchine, capaci di svolgere le attività in modo più veloce, efficace e preciso. Bisognerà quindi porre attenzione alla gestione del gap tra i diversi tipi di lavoratori, e alle relative conseguenze, in quanto esso sarà sempre più ampio e diffuso.

In conclusione, l’unica strada percorribile per uno sviluppo ottimale è quella di creare un’integrazione uomo-macchina funzionale e positiva, sia all’interno delle aziende che nella vita quotidiana. Perché i robot non dovrebbero essere visti come antagonisti o dominatori, ma come fedeli servitori capaci di aiutare e sostenere le persone a superare i loro limiti.

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Informazioni sull’autore:

Elisa Rati è borsista di ricerca in tema Lavori Ibridi presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “Marco Fanno” dell’Università di Padova ed è membro dell’Osservatorio delle Professioni Digitali.

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